IL REGNO DI ARTSAKH: UN PAESE INCANTATO CHE VOGLIONO DISTRUGGERE

Un bell’articolo della scrittrice Arslan per conoscere un po la storia dell’Artsakh.

Ci sono andata tre volte finora, nel Nagorno Karabakh, il “Giardino Nero” carico di suggestioni esotiche, chiamato però dai suoi abitanti Artsakh, cioè col nome armeno invece che con l’altro, composto da due vocaboli uniti insieme, uno turco e l’altro russo, che a loro è sempre suonato estraneo.

La prima volta fu per la lunga strada (più di sette ore) che ci portò alla capitale del Karabakh, Stepanakert, partendo da quella dell’Armenia, la popolosa Yerevan; la seconda volta arrivandoci velocemente, a bordo di un rumoroso ma comodo elicottero dell’esercito armeno; la terza per la nuova strada, finanziata dalla diaspora, che costeggia il grande lago Sevan e abbrevia di due ore il percorso, attraversando paesaggi montani e foreste di straordinaria suggestione.

Conobbi così un paese incantato, dove il tempo sembrava sospeso a una quotidianità serena e un pochino antiquata: bambini che giocavano per la strada, madri tranquille che gettavano sulla prole un’occhiata ogni tanto, palloni lanciati con vigore e palloncini fluttuanti in aria, poche macchine, piccoli negozi seminascosti, un mercato coperto lussureggiante di erbe ed ortaggi sconosciuti, di vasi di miele profumatissimo, di gingalov hatz, squisiti involtini di pane lavash ripieni di verdurette assortite, cotti al momento e profumati di spezie. L’ultima volta mi comprai una splendida scopa di saggina che con molta fatica riuscii poi a portare in Italia.

Uno stato non riconosciuto ma indipendente, dove incontri un ministro che sta ripulendo dalle erbacce le aiuole ai lati della porta del suo albergo, dove anno dopo anno cresce un turismo di appassionati curiosi, di sognatori e di archeologi: non è facile parlarne – e neppure capirlo. Questo piccolo paese aggrappato alle montagne del Caucaso è in fondo davvero un giardino segreto, come lo ha definito Graziella Vigo, dopo averlo percorso in lungo e in largo scattando le sue preziose fotografie, parlando con la gente, annusandone i profumi e ripercorrendo la sua misteriosa lunghissima storia, come la si respira a ogni passo.

Artsakh, dall’armeno antico tsakh, che significa legno.Legno, cioè boschi e foreste di queste valli del Caucaso orientale, che per circa 11.500 kmq abbracciano e proteggono l’Armenia verso oriente. Qui si trovano alcuni dei più antichi e durevoli insediamenti del popolo armeno, che appartiene alla grande famiglia indoeuropea, e si era insediato nell’ampia zona fra il Monte Ararat, il Caucaso e i grandi laghi di Van, Sevan e Urmià verso il VII secolo a.C.

Montagne oscure ricoperte da un manto di selve ininterrotte che si stagliano sull’orizzonte chiudendolo da ogni parte, cima dopo cima, e appaiono al viaggiatore quasi incatenate fra loro, in un susseguirsi impressionante; valli luminose di erbe e acque correnti che si aprono all’improvviso, percorse da mucche determinate e volitive che camminano spavalde lungo la strada e da cavalli che galoppano liberi all’orizzonte: tutto fa pensare ad un mondo di confine, ignoto forse ma non ostile. La piccola tribù armena che qui si stabilì ha messo radici che non sono mai state tagliate; questa gente ha combattuto per la propria terra, ha difeso con ostinazione una certa indipendenza, ha conservato perfino una classe nobiliare, i melik, mentre fra gli armeni che vivevano nell’impero ottomano nel corso dei secoli l’aristocrazia era scomparsa. Il popolo dell’Artsakh non ha subito il trauma del genocidio del 1915 perché non faceva parte dell’impero ottomano: per secoli rimasto sotto l’influenza persiana, col trattato di Gulistan del 1813 passò in potere dello zar di Russia, che nel 1828 riuscì ad annettersi tutta la Transcaucasia.

Questa terra isolata e circondata di cime inaccessibili, ma fertile e ricca d’acque negli altopiani pianeggianti, con le sue pecore di montagna dalla coda grassa e i boschi pieni di animali, costituiva da millenni un importante nodo di passaggio verso occidente, percorso da monaci, guerrieri e mercanti. L’Artsakh si convertì al Cristianesimo insieme al resto d’Armenia, e vi furono costruiti molti monasteri che divennero importanti centri culturali e religiosi: sembra che fosse opera dello stesso Gregorio l’Illuminatore la prima chiesa, nella regione oggi conosciuta come Martuni; e – secondo la tradizione – nel secolo successivo fu san Mesrop Mashtots, l’inventore dell’alfabeto, a fondare la prima scuola del paese. La religione e la cultura, influenzandosi reciprocamente, hanno infatti plasmato dovunque la peculiare identità armena.

Se la capitale attuale è la moderna cittadina di Stepanakert, annidata al centro di un’accogliente vallata, nell’Ottocento la città più importante era la vicina Shushi, raccolta intorno a un’imponente fortezza medievale costruita su un ampio sperone roccioso. Era un movimentato crocevia di culture e di commerci, dove (scrive un cronista) “si parlavano millanta lingue”: e poiché all’epoca Parigi era un modello universale, ecco che Shushi, seconda nel Caucaso solo a Tiflis, l’odierna Tbilisi, veniva chiamata “la Parigi del Caucaso”, ed era conosciuta per la sua vivacissima vita economica (seterie e tappeti soprattutto) e culturale (alfabetizzazione diffusa, partiti politici, giornali, teatri, caffè…), in stretto rapporto con il mondo russo e con quello occidentale.

Durante la guerra con l’Azerbaigian del 1992-94 la cattedrale di Shushi e gran parte delle abitazioni furono quasi completamente distrutte; ma quando ci andai durante la mia prima visita, ferveva la ricostruzione. Mi impressionò molto, allora, arrivare alla grande spianata dove già sorgeva la bianca chiesa nuovissima, e vedere la fila di soldati in tuta mimetica che ci entravano uno dopo l’altro, per accendere le candeline gialle nei grandi vassoi rotondi, tipiche della devozione armena: un’immagine folgorante, che univa l’umile preghiera e il sogno di vivere in pace alla necessità di autodifesa di un popolo minacciato e perseguitato.

Una guerra per la sopravvivenza che non è ancora finita, e la pace appare oggi più lontana che mai: la tregua armata che – nonostante le frequenti violazioni – aveva permesso che il paese (abitato da circa 150.000 persone) proseguisse e rafforzasse la sua indipendenza de facto, consolidando in senso democratico le istituzioni e l’apparato dello stato, è stata violentemente interrotta da un attacco a tutto campo dell’esercito azero, supportato da massicci aiuti del governo turco e dalla presenza di un cospicuo numero di miliziani jihadisti provenienti dalla Siria.

In una spietata campagna di disinformazione, i capi politici e militari del governo azero hanno tentato di attribuire all’Armenia l’aggressione; ma testimonianze, video, dichiarazioni di giornalisti presenti sul posto hanno dimostrato senza ombra di dubbio che lo scopo era ben altro; e d’altronde, non si vede per quale motivo il piccolo popolo dell’Artsakh, che già ha ottenuto l’indipendenza, dovrebbe cercare il conflitto contro un paese più numeroso e poderosamente armato.

Gli armeni sono soli, nel silenzio delle grandi potenze, come lo furono cent’anni orsono, quando le stesse grandi potenze abbandonarono al suo destino la piccola repubblica appena costituita dell’Armenia caucasica, che venne presto inghiottita dall’Unione Sovietica; e intanto l’Artsakh subisce continui bombardamenti che causano grandi perdite fra i civili, distruzioni ovunque e la fuga di circa settantamila persone, soprattutto donne, vecchi e bambini, che si sono rifugiati a Yerevan. Anche la cattedrale di Shushi è stata di nuovo colpita due volte. I loro uomini resistono al fronte col coraggio della disperazione.

È superfluo ovviamente ricordare che l’area del Caucaso è – ed è sempre stata – di straordinaria complessità etnica e linguistica; tuttavia le cause e le ragioni di questa guerra sono in realtà abbastanza semplici, se la si considera nella prospettiva delle attuali rivendicazioni di molte etnie circa il loro “spazio vitale”.

All’inizio del Novecento, gli armeni dell’impero ottomano furono spazzati via – dal 1915 in poi – dalla loro patria ancestrale in Anatolia orientale, vittime del primo genocidio del secolo. Dopo la rivoluzione del 1917 si forma nel Caucaso una federazione transcaucasica, che dà origine a tre repubbliche indipendenti (Georgia, Armenia, Azerbaigian). Nel 1920 tuttavia la Transcaucasia cade nelle mani dei bolscevichi, e la situazione diventa incandescente: i russi combattono fra loro, le potenze vincitrici, soprattutto l’Inghilterra, cercano di intervenire con promesse e lusinghe, Mustafa Kemal sta impadronendosi dell’impero ottomano e intreccia solidi legami con i cugini azeri, che parlano la sua stessa lingua (i pozzi petroliferi di Baku fanno gola a tutti).

Ma sarà Stalin il georgiano, plenipotenziario di Lenin per il Caucaso, a rimescolare le carte fra le tre nazioni, assegnando all’Azerbaigian il Karabakh, abitato per il 95% da armeni, e successivamente anche il territorio del Nakichevan, dove c’era allora una cospicua presenza armena, ricca di monumenti, monasteri e monumentali croci di pietra che ne indicavano la storia cristiana. Della presenza e delle memorie armene questa terra è stata completamente spogliata, come descrive nel suo struggente racconto Sogni di pietra lo scrittore azero Akram Aylisli, per questo perseguitato nel suo paese.

Questa situazione dura fino alla crisi finale dell’impero dell’URSS. Dovunque ci sono minoranze, le diverse nazionalità rialzano il capo. Nel 1988 avvengono scontri in diverse località fra azeri e armeni, che sfociano nella violenza di pogrom e massacri organizzati, come nella città di Sumgait e nella stessa capitale Baku. Nel frattempo, nel caos legislativo del tramonto sovietico, i rappresentanti del soviet del Karabakh proclamano uno statuto di autonomia e infine l’indipendenza nel 1991, convalidata da un referendum popolare e da successive elezioni politiche.

Nel gennaio 1992 cominciano i bombardamenti azeri. La guerra vera e propria va avanti per due anni, con distruzioni massicce, ma trovando un’inaspettata e decisa resistenza. Gli armeni hanno ben presente l’incubo del 1915, e sanno di combattere per la propria terra: e così, fra alterne vicende, riescono a tenere il territorio.

E oggi, di fronte a questa nuova terribile guerra asimmetrica, il silenzio dell’Unione Europea fa male, molto male, e la diplomazia balbetta. Ma tuttavia io credo che dimenticarsi della realtà viva del popolo fiero e gentile dell’Artsakh, nostro avamposto orientale di civiltà e di cultura, sarebbe davvero un gravissimo errore.

Antonia Arslan

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